1. Introduzione
1.1 Premessa
Lo scorso 15 aprile 2021, l’Avvocato generale (“AG”) Bobek ha presentato le sue conclusioni nella causa Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi[1], proponendo alla Corte di giustizia (“CGUE”) di riconsiderare i criteri dettati dalla sentenza CILFIT v. Ministero della Sanità (“CILFIT”)[2] – con particolare riferimento alla dottrina dell’acte clair – e di sostituirli con tre nuovi requisiti, cumulativi, che meglio realizzerebbero gli obiettivi dell’art. 267 TFUE.
1.2 Il procedimento a quo
Il Consiglio di Stato, con ordinanza del 22 marzo 2017, n. 1297, aveva sottoposto, in accoglimento della domanda formulata dai ricorrenti, un primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, sia di interpretazione sia di validità, ai sensi dell’art. 267 TFUE[3]. La peculiarità del procedimento a quo, dunque, consiste nella circostanza che, nell’ambito della medesima causa, il Consiglio di Stato aveva già provveduto ad effettuare un rinvio pregiudiziale, definito dalla Corte di giustizia con sentenza del 19 aprile 2018[4]. In tale pronuncia, la Corte di giustizia aveva affermato che il diritto dell’Unione non ostava all’interpretazione fornita dal diritto interno in materia di appalti[5]. I ricorrenti, ritenendo che la Corte di giustizia non avesse tenuto conto, nella sua decisione, di alcune caratteristiche del caso di specie e considerando, per tale ragione, la sentenza “di fatto inutilizzabile per la definizione della vicenda”, domandavano al Consiglio di Stato di procedere ad un nuovo rinvio pregiudiziale, rimettendo all’esame della Corte cinque “ulteriori” questioni[6].
Il Giudice amministrativo osservava che tre di tali questioni (due ed una parte, per l’esattezza) dovessero intendersi come palesemente infondate, in quanto già risolte alla luce di quanto affermato dalla sentenza della Corte di giustizia del 19 aprile 2018. Diversamente, poiché ponevano in luce nuovi profili di contrasto con il diritto dell’Unione, le altre due questioni dovevano qualificarsi come questioni “nuove”.
Così, il Consiglio di Stato, con ordinanza del 15 luglio 2019, riteneva necessario disporre un secondo rinvio pregiudiziale limitatamente a tali due questioni nuove, in virtù della consolidata giurisprudenza UE che configura in capo al giudice di ultima istanza l’obbligo di rinvio[7]. Il tutto, però, sottoponendo alla Corte un primo e preliminare quesito in ordine all’effettiva portata del disposto ex art. 267(3) TFUE[8].
Affermava il Consiglio di Stato che l’obbligatorietà del rinvio pregiudiziale non potesse essere disgiunta da un regime di “preclusioni processuali”, considerato che una proposizione “a catena” di questioni avrebbe ingenerato il rischio di abuso del processo e avrebbe finito per rendere evanescente il diritto alla tutela giurisdizionale e il principio di celere definizione del giudizio[9]. Orbene, è tale primo e preliminare quesito sui confini dell’obbligo previsto ex art 267(3) TFUE a costituire l’oggetto delle conclusioni di Bobek: l’AG, lo si anticipa fin d’ora, non entra nel merito delle due questioni “nuove”, ma focalizza la sua attenzione solo sulla prima domanda, spaziando fino all’individuazione di una più ampia problematica, con il dichiarato fine di mettere in discussione i criteri della giurisprudenza CILFIT.
2. i confini dell’obbligo previsto dall’art. 267, terzo comma, TFUE
2.1 Una problematica più ampia
Secondo l’AG, dalla questione preliminare sollevata dal giudice del rinvio emerge una problematica più ampia. Bisogna chiedersi, infatti, se:
- rientrino nell’obbligo di rinvio pregiudiziale incombente ai giudici di ultima istanza tutti i casi in cui persistano dubbi circa la corretta applicazione del diritto dell’Unione nel caso di specie, indipendentemente dal fatto che sia stata già proposta o meno, nella stessa causa, una precedente domanda di pronuncia pregiudiziale; e, nello specifico,
- quale sia l’esatta portata dell’obbligo di proporre una domanda di pronuncia pregiudiziale e delle eccezioni a tale obbligo.
Ad una prima lettura, argomenta l’AG Bobek, alla questione potrebbe essere agevolmente fornita una risposta sulla base della giurisprudenza consolidata della Corte, che egli stesso riassume con il principio: “spetta sempre al giudice nazionale decidere”. Difatti, benché il giudice del rinvio possa, in linea di principio, attribuire spazio alle considerazioni delle parti, l’art. 267 TFUE istituisce una cooperazione diretta fra la Corte e i giudici nazionali attraverso un procedimento estraneo ad ogni iniziativa delle stesse; d’altro canto, sebbene la volontà della Corte sia quella di assistere il giudice del rinvio nel modo più ampio possibile, quest’ultimo è l’organo che meglio di chiunque altro può determinare sulla necessarietà della pronuncia pregiudiziale.
Così, una domanda di rinvio potrebbe, in linea di principio, essere proposta in qualsiasi momento ed indipendentemente dall’esistenza di una precedente sentenza pregiudiziale della Corte pronunciata nell’ambito dello stesso procedimento. Per converso, bisogna considerare che la Corte, in ripetute occasioni, ha affermato l’autorità dell’interpretazione da sé fornita nell’ambito di una propria sentenza e che tale autorità può privare un giudice di ultima istanza dell’obbligo di rinviare la questione; d’altro canto, il Consiglio di Stato, nell’ordinanza del 15 luglio 2019, ha chiarito che alcune delle questioni proposte dalle parti costituissero questioni nuove e, dunque, in quanto tali, non suscettibili di violare l’osservanza di un precedente della Corte.
Così, a parere dell’AG, la complessità sottesa al quesito posto dal giudice amministrativo italiano impone una riflessione più ampia in merito alla natura e alla portata dell’obbligo di sollevare una questione pregiudiziale: il fulcro del problema risiederebbe nell’inadeguatezza dei criteri individuati dalla giurisprudenza CILFIT ed, in particolare, dell’eccezione dell’acte clair.
2.2 La posizione dei Governi intervenuti in causa. Cenni.
I Governi degli Stati membri intervenuti hanno adottato posizioni fra loro divergenti. In primo luogo, mentre il Governo italiano e quello francese hanno individuato alcuni aspetti da migliorare nei criteri della sentenza CILFIT, il Governo tedesco, al pari della Commissione, ha considerato che non vi fosse ragione per ripensare lo status quo, dal momento che tali eccezioni avevano resistito per ben quarant’anni.
Il Governo italiano, in particolare, ha sottolineato la necessità di effettuare un migliore bilanciamento tra l’obbligo di rinvio pregiudiziale ed il principio di buona amministrazione della giustizia, argomentando che una violazione dell’art. 267, terzo comma, TFUE sussisterebbe solo nel caso di motivazione assente o carente da parte del giudice a quo quanto alla scelta di non procedere al rinvio.
Infine, il Governo francese ha suggerito di reinterpretare i criteri CILFIT alla luce dell’obiettivo generale dell’art. 267 TFUE e dello stato attuale del diritto dell’Unione, in particolare, facendo sì che il criterio si concentri su questioni che possano dar luogo a interpretazioni divergenti all’interno dell’Unione, non sui singoli casi all’interno degli Stati membri.
2.3 L’obbligo di rinvio pregiudiziale contenuto nell’art. 267, comma terzo. TFUE. Le eccezioni a tale obbligo come creazione giurisprudenziale: la sentenza CILFIT
Prima di addentrarci nel cuore del problema, appare utile ripercorrere brevemente il contenuto dell’art. 267 TFUE, che stabilisce la competenza della Corte di giustizia a pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione e sulla validità dei Trattati, e i criteri elaborati dalla sentenza CILFIT.
La norma, al terzo comma, precisa che se la questione è sollevata dinanzi ad una giurisdizione “avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno”, tale giudice non ha solo la facoltà di adire la Corte, bensì “è tenuto” a rivolgersi al giudice comunitario. La ratio è quella di configurare un obbligo di rinvio pregiudiziale in capo al giudice di ultima istanza, ogniqualvolta il contesto in cui l’eccezione è sollevata rappresenti l’ultima chance per chiarire una determinata questione interpretativa[10].
Il Trattato, dunque, delinea un obbligo categorico in capo ai giudici di ultima istanza senza eccezioni.
Con la sentenza CILFIT, tuttavia, tale dovere ha assunto contorni più sfumati: la Corte di giustizia, infatti, ha individuato tre eccezioni all’obbligo di rinvio pregiudiziale del giudice di ultima istanza. Il giudice non è tenuto a sollevare la questione quando:
- essa non è pertinente, poiché non può in alcun modo influire sull’esito della lite; ovvero
- la disposizione comunitaria di cui è causa ha già costituito oggetto di interpretazione da parte della Corte (c.d. eccezione dell’acte éclairé); oppure ancora
- la corretta applicazione del diritto comunitario si impone con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata (c.d. teoria dell’acte clair).
Con riferimento a quest’ultimo criterio, la Corte ha precisato che, prima di giungere a tale conclusione, il giudice nazionale deve “maturare il convincimento” che la stessa evidenza si imponga anche ai giudici degli altri Stati membri ed alla Corte di giustizia. Inoltre, l’interpretazione della norma comporta anche il raffronto delle varie versioni linguistiche, nonché delle nozioni giuridiche adottate dai vari Stati membri e la collocazione e l’interpretazione della disposizione di cui è causa all’interno del contesto nel quale è stata emanata.
In via preliminare, è fondamentale distinguere i due piani su cui si pongono l’obbligo e le eccezioni a tale obbligo: (a) da un lato, il dovere di rinvio per il giudice di ultima istanza è previsto all’interno del Trattato e (b) dall’altro, le eccezioni a tale obbligo, rappresentano una creazione giurisprudenziale.
3. I limiti dei criteri della giurisprudenza CILFIT secondo la tesi dell’AG Bobek
3.1 Le tre dicotomie evidenziate dall’AG Bobek
Qual è l’esatta portata dell’obbligo di proporre una domanda di pronuncia pregiudiziale e delle eccezioni a tale obbligo? In proposito, l’AG evidenzia tre dicotomie:
- quella fra “oggettivo” e “soggettivo”, fra ragione strutturale/sistematica ed attenzione al caso di specie;
- quella fra interpretazione ed applicazione del diritto dell’Unione Europea; e
- il contrasto tra divergenze interpretative all’interno di uno Stato membro e quelle all’interno dell’Unione Europea.
3.2 Prima dicotomia: sentenza Hoffmann-La Roche v. sentenza CILFIT
Da un punto di vista concettuale-sistematico, argomenta Bobek, le eccezioni previste dalla giurisprudenza CILFIT soffrirebbero di una discordanza con l’obbligo previsto ex art. 267(3) TFUE, a cui, invece, dovrebbero essere conformi. In altre parole, i criteri CILFIT difetterebbero di chiarezza in ordine al carattere soggettivo o oggettivo riguardo all’esistenza di un “ragionevole dubbio”: si tratta di dubbio che sorge in capo al singolo giudice a quo con specifico riferimento al caso di specie (dubbiosoggettivo) o, viceversa, esso dev’essere interpretato come un dubbio che tiene conto di circostanze oggettive (dubbiooggettivo)?
A detta dell’AG Bobek, tale contrasto emerge con particolare evidenza dal raffronto della sentenza CILFIT con la pronuncia Hoffmann-La Roche[11]. In quest’ultima sentenza, la Corte ha statuito che la ragione strutturale sottesa all’obbligo contenuto all’interno dell’art. 267(3) TFUE risiede nell’impedire che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme del diritto dell’UE. La ratio della disposizione, dunque, consisterebbe nell’evitare divergenze giurisprudenziali all’interno dell’Unione. Evidentemente, tale assunto ha natura oggettiva, poiché si concentra sulla giurisprudenza in generale e non sul caso di specie.
Al contrario, la logica dettata dalle eccezioni CILFIT, e in particolare il criterio dell’ acte clair, sarebbero imperniati sulla singola fattispecie e sulle perplessità soggettive all’interno del medesimo procedimento: a proposito dell’asserita assenza di fattibilità dei criteri, l’AG Bobek sostiene che questi ultimi siano affetti da una “una buona dose di soggettivismo non accertabile e non riesaminabile”, poiché richiedono ai giudici di “maturare il convincimento” che l’evidenza del ragionevole dubbio si imponga anche ai giudici di altri Stati membri ed alla Corte di giustizia[12].
3.3 Seconda dicotomia: interpretazione ed applicazione del diritto dell’Unione
Dalla prima dicotomia deriva la linea di demarcazione fra interpretazione e applicazione del diritto. Se l’obbligo previsto dall’art. 267(3) TFUE riguardasse l’applicazione del diritto dell’Unione e non la sua interpretazione, sarebbe difficilmente individuabile il confine fra il dovere della Corte di giustizia e quello dei giudici nazionali.
Se, invece, si fossero realmente perseguiti gli obiettivi precisati nella sentenza Hoffmann-La Roche, si sarebbe dato rilievo all’interpretazione uniforme, non alla corretta applicazione. I due aspetti divergono, dal momento che l’interpretazione di una disposizione UE ha a che fare con la sua portata e con il suo scopo; diversamente, la sua applicazione consiste nella sussunzione di fatti specifici all’interno di una definizione. In altre parole, dunque, l’interpretazione mira ad estendere all’interno dell’Unione un’interpretazione univoca delle sue norme da parte della giurisprudenza; l’applicazione, invece, ha a che fare con la correttezza dell’esito del singolo caso.
3.4 Terza dicotomia: divergenze interpretative all’interno di uno Stato membro e all’interno dell’Unione Europea
La prassi successiva alla sentenza CILFIT relativa all’applicazione dei criteri, continua l’AG, non sarebbe coerente: è possibile riscontrare divergenze interpretative sia all’interno di uno Stato membro sia nell’Unione. Tale variazione nell’applicazione dei criteri si traduce in risultati alquanto diversi. Queste differenze, all’interno di uno Stato membro e, a fortiori, in tutta l’Unione, dovrebbero essere evitate: esse, di per sé sole, giustificherebbero un intervento della Grande Sezione della Corte di giustizia sul punto.
Dall’analisi delle tre dicotomie, emerge che l’enfasi riguardo all’obbligo di rinvio pregiudiziale debba essere modificata: l’inesistenza di un “ragionevole dubbio soggettivo quanto alla corretta applicazione del diritto dell’Unione riguardo a una specifica controversia” dovrebbe tramutarsi nell’esistenza di una “divergenza oggettiva individuata nella giurisprudenza a livello nazionale, che pone quindi in pericolo l’interpretazione uniforme del diritto dell’Unione all’interno dell’Unione europea”[13].
3.5. L’asserita assenza di fattibilità della dottrina dell’acte clair con riferimento alle sue componenti oggettive
L’AG Bobek non si limita a criticare la dottrina dell’acte clair con riguardo alla sua componente soggettiva, ma contesta il criterio anche nei suoi elementi enunciati in termini oggettivi, in particolare nella parte in cui impone il raffronto delle diverse versioni linguistiche delle disposizioni UE.
L’AG ceco osserva che tale requisito manca di fattibilità ed è stato in precedenza criticato anche da altri Avvocati generali, in quanto domanda al giudice a quo uno sforzo sovraumano (tra l’altro compiuto di rado della stessa Corte di giustizia). In particolare, Bobek argomenta che, se da un lato la dottrina dell’acte clair è affetta da un pesante soggettivismo, dall’altro, anche gli elementi enunciati in termini oggettivi risultano problematici, poiché semplicemente “irrealizzabili”[14].
3.6 L’inesistenza di un mezzo di ricorso diretto per far valere una violazione ex art. 267 (3)
Un ulteriore argomento avanzato dall’AG per sostenere che è necessario ripensare i criteri CILFIT è la considerazione che all’obbligo dettato dall’art. 267(3) TFUE è estraneo a qualsiasi meccanismo di enforcement delle parti private. Benché, infatti, alcuni rimedi possano essere immaginati:
- nella possibilità di far valere la responsabilità civile dello Stato membro, allorché la violazione del diritto UE derivi da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado (come affermato dalla Corte di giustizia nella sentenza Köbler[15]), oppure
- nell’avvio da parte della Commissione, magari a seguito di denuncia, di un procedimento di infrazione ai sensi dell’art. 258 TFUE,
entrambe le ipotesi presentano criticità.
Quanto alla prima, la sentenza Köbler subordina la risarcibilità del danno derivante da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado a tre condizioni: (a) la norma di diritto UE violata dev’essere preordinata ad attribuire diritti ai singoli; (b) la violazione dev’essere sufficientemente caratterizzata; e (c) deve sussistere un nesso causale diretto tra la violazione e il danno subito. In particolare, ai fini dell’integrazione del requisito di cui al punto (b), deve trattarsi di una violazione manifesta. Ora, da un lato, l’articolo 267(3) TFUE non è norma preordinata a conferire diritti ai singoli e, dunque, l’inosservanza dell’obbligo non può, di per sé, far sorgere la responsabilità dello Stato; in secondo luogo, i criteri CILFIT non svolgono alcun ruolo nella valutazione dell’esistenza di una “violazione manifesta”.
Quanto al rimedio di cui all’art. 258 TFUE, in alcune occasioni, la Corte di giustizia ha constatato una violazione del diritto dell’Unione con riguardo all’omissione di rinvio pregiudiziale ad opera di un giudice di ultima istanza[16]. Tuttavia, secondo l’AG Bobek, la decisione se avviare o meno un procedimento di infrazione, sarebbe affidata alla totale discrezionalità della Commissione, con le parti private che non hanno alcun ruolo né alcun potere al riguardo[17].
4. La proposta dell’AG Bobek
In conclusione, secondo l’AG, dovrebbe essere esaltata la finalità pubblica del rinvio pregiudiziale, come forma di garanzia dell’interpretazione uniforme e dell’ulteriore sviluppo del diritto dell’Unione. L’attenzione dovrebbe trasferirsi dalla dimensione privata alla sfera pubblica e all’approccio sistematico. Tale obiettivo può essere raggiunto riaffermando le finalità dell’art. 267(3) TFUE, così come sancite nell’ambito della sentenza Hoffmann-La Roche. In concreto, ciò significherebbe sostituire gli “antiquati” criteri CILFIT con nuove condizioni, cumulative, che tengano conto delle esigenze finora esposte. L’obbligo in capo al giudice di ultima istanza si configurerebbe, dunque, solo a patto che la causa sollevi:
- una questione generale di interpretazione del diritto dell’Unione (anziché una questione relativa alla sua applicazione);
- sulla quale questione esistano oggettivamente più interpretazioni ragionevolmente possibili; e
- per la quale la risposta non possa essere dedotta dalla giurisprudenza esistente della Corte (o riguardo alla quale il giudice del rinvio intenda discostarsi da tale giurisprudenza).
Sul primo criterio, Bobek argomenta che i procedimenti pregiudiziali hanno spesso ad oggetto questioni fattuali piuttosto precise e che fornire soluzioni dettagliate a questioni specifiche non sempre contribuisce a promuovere un’applicazione uniforme. Come osservato supra, infatti, l’interpretazione, formulata in modo astratto, ha a che fare con la portata e lo scopo di una certa disposizione; l’applicazione, al contrario, consiste nella sussunzione di una fattispecie all’interno di una definizione. L’interpretazione, quindi, deve in questo senso avere una portata generale o generalizzabile. Un simile modus operandi concorrerebbe all’eliminazione di cause molto specifiche, particolari, che, pur sollevando potenzialmente una questione di interpretazione del diritto dell’Unione, sono “semplicemente prive di incidenza generale e strutturale”[18].
Il secondo criterio concerne la dicotomia fra metodo strutturale-oggettivo e ragione soggettiva: piuttosto che dare rilievo al ragionevole dubbio del singolo giudice rispettivamente alla fattispecie, si dovrebbe ricercare l’esistenza di soluzioni alternative plausibili. L’obbligo diventerebbe più stringente quando la questione posta dinanzi al giudice dalle parti evidenzi la presenza di interpretazioni diverse della stessa norma, a prescindere che tale divergenza di orientamenti sia interna allo stesso Stato membro o riguardi più Stati membri. Infine, tali divergenze assumerebbero rilievo solo con riferimento alle decisioni definitive dei giudici di ultima istanza, e non con riguardo ad interpretazioni contraddittorie nell’ambito di un singolo procedimento: queste ultime, non necessariamente sono sintomo di interpretazioni diverse della stessa norma, bensì potrebbero essere causate da un errore dell’organo di grado inferiore.
Infine, per quanto concerne il terzo criterio, l’AG Bobek precisa che un giudice nazionale di ultima istanza non è tenuto a sollevare una questione di interpretazione del diritto dell’UE se la disposizione è già stata interpretata dalla Corte e tali orientamenti consentono di risolvere “con fiducia” la questione sottopostagli; per giurisprudenza consolidata, potrebbe intendersi anche un solo precedente, a patto che quest’ultimo risulti chiaro e ben formulato.
Come accennato, si tratta di criteri cumulativi: affinché sussista l’obbligo di rinvio pregiudiziale, dovrebbero essere soddisfatte tutte e tre le condizioni.
Infine, il giudice di ultima istanza al quale le parti abbiano domandato un rinvio pregiudiziale è sempre tenuto a fornire un’adeguata motivazione circa l’insussistenza di uno dei tre requisiti, con particolare riferimento ai problemi interpretativi sottoposti al suo esame dalle parti.
5. Considerazioni conclusive
Una prima riflessione riguarda l’asserito aumento dei rinvii pregiudiziali ad opera degli organi di ultima istanza. Infatti, pare che una delle considerazioni che ha spinto l’AG Bobek a voler riconsiderare i criteri delineati dalla giurisprudenza CILFIT sia proprio il timore di un aumento spropositato dei procedimenti instaurati dinanzi alla Corte[19]. Se è vero che le domande di rinvio pregiudiziale hanno subìto un incremento negli ultimi cinque anni, passando da 436 nel 2015 a 641 nel 2019[20], tale dato non permette di discernere fra domande di rinvio pregiudiziale promosse da giudici di ultima istanza e domande sollevate da organi di grado inferiore. In assenza di specifiche statistiche sul punto, non resta che basarsi sui dati riguardanti l’evoluzione globale dell’attività giudiziaria della Corte[21]. Stando a tali statistiche, si può osservare che il totale delle domande pregiudiziali sollevate da organi di ultima istanza rappresenta solo il 35% delle cause pregiudiziali globali[22].
Una seconda osservazione riguarda la concreta fruibilità dei criteri proposti dall’AG Bobek. Certamente, in quarant’anni, non sono mancate critiche verso i requisiti delineati dalla giurisprudenza CILFIT: oltre alla dottrina, alcuni Avvocati generali in passato hanno messo in luce alcune contraddizioni insite in tali requisiti. Eppure, i criteri CILFIT sono sopravvissuti per due ventenni, probabilmente anche grazie alla flessibilità che li contraddistingue. Del resto, è lo stesso AG Bobek ad affermare: “non propongo certamente che ci disfiamo di un unicorno per sostituirlo immediatamente con un altro”[23]: in altre parole, se è vero che la giurisprudenza CILFIT ha alcuni limiti, occorre essere certi che i criteri che la sostituiranno siano in grado di garantire un miglior utilizzo dell’art. 267 TFUE.
A ciò si aggiunga che alcuni dei nuovi requisiti proposti risultano, in concreto, di difficile attuazione. Si pensi, ad esempio, al fatto che, nella pratica, potrebbe non essere agevole delineare un rigido confine fra la nozione di “interpretazione” e quella di “applicazione”. Inoltre, riguardo al terzo criterio, è lo stesso Bobek ad affermare: “è probabile che non manchino (accese) discussioni su cosa sia esattamente, in un contesto specifico, una « giurisprudenza consolidata » ”[24].
Infine, appare senza dubbio condivisibile l’osservazione per cui l’art. 267(3) TFUE non è dotato di una reale efficacia diretta. Ciò premesso, ci sia consentito di dubitare che una limitazione dello strumento del rinvio pregiudiziale sia la strada giusta per perseguire al meglio l’obiettivo della tutela processuale delle parti private.
Resta ora da vedere quale posizione deciderà di adottare la Corte di giustizia: se aprirà la strada ad una potenziale modifica dei criteri CILFIT o se, invece, opterà per confermare la sua consolidata giurisprudenza.
* This GT Alert is limited to non-U.S. matters and law.
[1] Conclusioni dell’Avvocato generale Michal Bobek, presentate il 15 aprile 2021, causa C-561/19, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi c. Rete Ferroviaria Italiana SpA.
[2]CILFIT v. Ministero della Sanità, 6 ottobre 1982, 283/81, EU:C:1982:335.
[3] Giova sin d’ora premettere che assume qui rilievo soltanto la questione relativa all’interpretazione (e non anche quella inerente alla validità), dal momento che una consolidata giurisprudenza della Corte pone le due fattispecie su un piano diverso quanto all’obbligo di rinvio pregiudiziale. L’AG, ai paragrafi 44 - 46, richiama la giurisprudenza della Corte di giustizia che pone le questioni relative alla validità su un piano diverso rispetto alle questioni relative all’interpretazione: difatti, a differenza delle seconde, per le prime l’obbligo di rinvio pregiudiziale sussiste in capo a tutti i giudici nazionali, a prescindere che il giudice a quo sia un organo di ultima istanza. Ne deriva che le eccezioni di cui alla sentenza CILFIT non sono applicabili all’obbligo di sollevare una questione di validità.
[4] Sentenza del 19 aprile 2018, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi SpA c. Rete Ferroviaria Italiana, C-152/17, EU:C:2018:264. Per un recente caso di “doppio” rinvio pregiudiziale, v. ordinanza del Consiglio di Stato n. 2327/2021. La causa aveva ad oggetto un provvedimento dell’AGCM con il quale quest’ultima aveva accertato l’esistenza di un’intesa restrittiva della concorrenza; il Consiglio di Stato decideva di sottoporre alla Corte di giustizia un (primo) rinvio pregiudiziale, definito con sentenza della CGUE del 23 gennaio 2018 (C-179/16, EU:C:2018:25). Il Consiglio di Stato, alla luce della pronuncia della Corte di giustizia, rigettava gli appelli delle parti. Queste ultime, tuttavia, chiedevano la revocazione della pronuncia del giudice amministrativo invocando l’errata applicazione dei principi espressi dalla CGUE. Il Consiglio di Stato, così, con ordinanza del 18 marzo 2021, decideva di sollevare, nuovamente, una questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di giustizia.
[5] Nell’ambito del procedimento a quo, le parti avevano domandato al Consiglio di Stato di investire la Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 267 TFUE, per chiedere se fosse “conforme al diritto europeo primario ed alla Direttiva n. 17/2004 l’interpretazione del diritto interno che escluda la revisione dei prezzi nei contratti afferenti ai cd. settori speciali, specie in quelli con oggetto diverso da quelli cui si riferisce la stessa Direttiva”.
[6] Come si evince al punto 8.2 dell’ordinanza di rinvio del Consiglio di Stato, pubblicata il 15 luglio 2017, i ricorrenti avevano ritenuto che la sentenza della Corte di giustizia non avesse preso posizione “sul carattere strumentale o meno del servizio di pulizia al servizio di trasporto qualificato come speciale ai sensi del diritto europeo e statale”, rilevando come la sentenza assumesse che il rapporto contrattuale si fosse svolto senza alcuna proroga. Inoltre, i ricorrenti rilevavano un “mutamento del quadro normativo europeo e statale” tale da rendere possibile, se non addirittura auspicabile, la revisione dei prezzi.
[7] Il Consiglio di Stato, con ordinanza pubblicata il 15 luglio 2019, al paragrafo 9.4.1., invoca una giurisprudenza costante della Corte di giustizia, in particolare la sentenza del 18 luglio 2013, Consiglio Nazionale dei Geologi, C-136/12, EU:C:2013:489, punto 25, affermando che “Il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea si rende, quindi, necessario, da parte di questo Consiglio di Stato quale giudice di ultima istanza, alla luce di quanto affermato dalla consolidata giurisprudenza della stessa Corte di Giustizia […], laddove essa precisa, par. 25, che : “. . . qualora non esista alcun ricorso giurisdizionale avverso la decisione di un giudice nazionale, quest'ultimo è, in linea di principio, tenuto a rivolgersi alla Corte ai sensi dell'articolo 267, terzo comma, TFUE quando è chiamato a pronunciarsi su una questione di interpretazione del predetto Trattato”.
[8] Il Consiglio di Stato domanda alla Corte di giustizia di chiarire se: “ai sensi dell’art. 267 TFUE, il Giudice nazionale, le cui decisioni non sono impugnabili con un ricorso giurisdizionale, è tenuto, in linea di principio, a procedere al rinvio pregiudiziale di una questione di interpretazione del diritto dell’Unione, anche nei casi in cui tale questione gli venga proposta da una delle parti del processo dopo il suo primo atto di instaurazione del giudizio o di costituzione nel medesimo, ovvero dopo che la causa sia stata trattenuta per la prima volta in decisione, ovvero anche dopo che vi sia già stato un primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea” (enfasi aggiunta).
[9] Si veda l’ordinanza di rinvio del Consiglio di Stato, cit., paragrafo 9.4.2.
[10] Il principio è desumibile dalla giurisprudenza della Corte, come affermato, ex multis, nella sentenza Aquino, del 15 marzo 2017, C-3/16, EU:C:2017:209: “un organo giurisdizionale di ultimo grado costituisce per definizione l’ultima istanza dinanzi alla quale i soggetti dell’ordinamento possono far valere i diritti ad essi riconosciuti dal diritto dell’Unione” (enfasi aggiunta).
[11] Sentenza del 24 maggio 1977, Hoffmann‑La Roche, 107/76, EU:C:1977:89.
[12] Secondo Kornezov, The new format of the acte clair doctrine and its consequences, 2016 CMLR, 1317 – 1342, ciò che assume rilievo ai fini del rispetto del criterio di cui supra è proprio il personale e soggettivo convincimento del giudice riguardo all’eventualità che tale ragionevole dubbio sorga in capo anche ad altri giudici.
[13] Conclusioni dell’Avvocato generale Bobek, cit, punto 133.
[14] Conclusioni dell’Avvocato generale Bobek, cit, punto 104. La dottrina dell’acte clair, in precedenza, ha ricevuto critiche anche da altri Avvocati generali. Il concetto è ripreso dalle conclusioni dell’Avvocato generale Jacobs, nella causa Wiener SI, C-338/95, EU:C:1997:352, presentate il 10 luglio 1997, che al paragrafo 65 afferma: “[…] io non penso che si debba considerare che la sentenza CILFIT richieda ai giudici nazionali di esaminare tutte le disposizioni comunitarie in ognuna delle diverse versioni linguistiche […]. Questo implicherebbe in molti casi uno sforzo sproporzionato da parte dei giudici nazionali; inoltre, il riferimento a tutte le versioni linguistiche delle disposizioni comunitarie è un metodo che sembra essere applicato molto di rado dalla stessa Corte di giustizia, anche se questa si trova a tal fine in condizioni migliori rispetto ai giudizi nazionali”. Si segnalano anche le conclusioni dell’Avvocato generale Stix-Hackl, nella causa Intermodal Transports BV, C‑495/03, EU:C:2005:552, che al paragrafo 99 afferma: “Ritengo quindi che la sentenza CILFIT non possa essere intesa nel senso che il giudice nazionale, ad esempio, sia obbligato ad esaminare una disposizione comunitaria in ciascuna delle lingue ufficiali della Comunità. Ciò imporrebbe ai giudici nazionali un onere praticamente insostenibile e ridurrebbe di fatto a lettera morta o a «mossa tattica» la devoluzione – quand’anche circoscritta - ai giudici nazionali di ultima istanza delle questioni di diritto comunitario la cui soluzione sia «indubbia» ai sensi della sentenza CILFIT”. Certa dottrina (Kornezov, cit., pag. 1329) ha inteso entrambe le conclusioni al pari di un tentativo di ridimensionare la portata della teoria dell’acte clair, criterio asseritamente affetto di eccessiva rigidità. Secondo Broberg-Fenger, in Preliminary references to the European Court of Justice, Oxford, 2010, p.243, gli Avvocati generali Jacobs e Stix-Hackl hanno argomentato che la sentenza CILFIT non intende imporre alle corti nazionali di esaminare un atto in ciascuna delle lingue ufficiali, ma mira, piuttosto, a porre l’accento sulla necessità di non adottare un’impostazione eccessivamente letterale nell'interpretazione delle disposizioni comunitarie, così da attribuire un peso maggiore al contesto, allo scopo e agli obiettivi che tali norme si propongono.
[15] Sentenza Köbler c. Repubblica d’Austria, 30 settembre 2003, C-224/01, ECLI:EU:C:2003:513.
[16] Si veda la sentenza Commissione c. Francia, C-416/17, EU:C:2018:811, del 4 ottobre 2018, ove la Corte di giustizia ha constatato che la Repubblica francese fosse venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 267, terzo comma, TFUE per aver il Consiglio di Stato francese omesso di effettuare un rinvio pregiudiziale. Sul punto, v. anche le pronunce Commissione c. Italia, del 9 dicembre 2003, C‑129/00, EU:C:2003:656, e Commissione c. Spagna, del 12 novembre 2009, C‑154/08, non pubblicata, EU:C:2009:695.
[17] Kornezov, The New Format of the Acte Clair Doctrine and its Consequences, cit., p. 1318; v. anche Wattel, Köbler, CILFIT and Welthgrove: we can’t go on meeting like this, CMLR, vol. 41, 2004, p. 190.
[18] Conclusioni dell’Avvocato generale Michal Bobek, cit, p. 148.
[19] Bobek, nelle sue conclusioni, al punto 122, discorrendo dell’evoluzione del diritto dell’Unione e del sistema giudiziario, afferma che ci troviamo dinanzi a “un numero impressionante di nuove domande di pronuncia pregiudiziale”
[20] Relazione annuale della Corte di giustizia, 2019, disponibile al seguente indirizzo: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2020-08/20201762_qdap20001itn_pdf.pdf, pag 163.
[21] Si veda ancora la Relazione annuale della Corte di giustizia, 2019, che, a pag. 184, fornisce una panoramica dell’evoluzione generale dell’attività giudiziaria della Corte, dal 1952 al 2019 quanto alle domande pregiudiziali proposte, effettuando ripartizione per Stato membro e per organo giurisdizionale. La statistica è disponibile al seguente link: https://curia.europa.eu/jcms/upload/docs/application/pdf/2020-08/20201762_qdap20001itn_pdf.pdf.
[22] Ibid. Ad esempio, se si guarda all’Italia, su un totale di 1583 domande pregiudiziali promosse, ben 1205 sono derivate da organi giudiziari ulteriori rispetto alla Corte Costituzionale, alla Corte di Cassazione e al Consiglio di Stato. Discorso analogo vale per la Germania dove, a fronte di un totale di domande pari a 2641, ben 1785 provenivano da organi giudiziali non di ultima istanza.
[23] L’AG Bobek fa riferimento all’affermazione dell’AG Wahl nelle cause riunite X e van Dijk, C‑72/14 e C‑197/14, EU:C:2015:319, che, paragrafo 67, afferma: “Se si volesse aderire a una rigida interpretazione della giurisprudenza, incontrare un «vero» caso di acte clair sarebbe probabile, nella migliore delle ipotesi, quanto l’incontro con un unicorno”.
[24] Conclusioni dell’AG Bobek, citate, p. 158.